“Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate”
(Cesare Pavese, 20 ottobre 1945, dalla raccolta La terra e la morte)
ATTUALIZZANDO… LANGHE, LE ORIGINI
L’etimo del nome langa (che in piemontese indica proprio la collina) è incerto. Dante Olivieri aveva proposto in un primo momento un accostamento alla voce lombarda lanca, ma poi ha aderito alla proposta di Giulia Petracco Sicardi che, partendo dall’etnicoligure Langates, ha ricavato una base langa riferito alla posizione del castello o al castello stesso dove vivevano queste popolazioni. Nino Lamboglia invece propende per un accostamento a una base non indoeuropea lanka, che si riscontra anche in Langobriga (città iberica), dal probabile significato di “conca, avvallamento” e da questo “zona collinare”. Un documento del X secolo parla di Langarum. Nel XIV secolo nella Cronica Imaginis Mundi di Iacopo d’Acqui c’è scritto «in muntibus Albe, ubi dicitur Langhe». (Da Wikipedia)
FINALMENTE, A 74 ANNI, ECCOMI NELLE LANGHE
Ciò detto, premesso questo… Sapete quanto odio queste espressioni diffuse, soprattutto in tv, tra coloro che non hanno detto nulla di interessante e invece, sussiegosamente, le ripetono, come se avessero fissato opinioni fondamentali per l’umanità. Non ho questa presunzione, ma dal momento che oggi vorrei parlarvi della mia gita nelle Langhe, mi è sembrato indispensabile pubblicare, qui sopra, alcuni versi di Cesare Pavese e una spiegazione ufficiale delle origini di questa fascinosa zona collinare, che nel decimo secolo chiamavano Langarum.
Vi ho già raccontato che il fascino delle Langhe, per me, è di origine letteraria: la passione adolescenziale per i libri di Cesare Pavese. A seguire l’amicizia con Davide Lajolo, biografo di Pavese, che abitava da quelle parti: aveva l’età di mio padre e fu partigiano, politico, scrittore. A seguire, tanti amici, tante amicizie: persone che vivono o hanno vissuto nelle Langhe, mi hanno invitato affettuosamente a fare a bicchieri con il barolo e a cibarmi di funghi e tartufi, e non ho mai avuto il tempo per accettare. Ebbene sì, nella mia lunga vita nelle Langhe non ero mai stato. Ma quest’anno, mi sono tolto il capriccio: chi vuol esser lieto, sia… con quel che segue, e non importa se la mia giovinezza è ormai solo mentale e risale a una decina di lustri fa. La conclusione dei versi meravigliosi di Lorenzo de’ Medici è valida, sempre: del diman non v’è certezza. E io non so se davvero volessi esser lieto, ma certamente cogliere l’occasione di una letizia spirituale e materiale è una opportunità da non perdere. E perciò, finalmente, sono andato nelle Langhe. Ad Alba, che poi è una delle capitali enogastronomiche in Italia, e i suoi preziosi dintorni.
TREISO, LA CIAU DEL TORNAVENTO
Ma voi, sinceramente, riuscireste a immaginare un paesino abitato da meno di mille anime, sconosciuto ai più, però famoso ormai perché lì si trova uno dei ristoranti più importanti in Italia, ma forse anche in Europa? Questo paesino si chiama Treiso, ci sono arrivato di sera, nel buio, nessuno per le strade e mi chiedevo dove mi avesse portato il mio amico Andrea Cornelli, con il suo inaspettato invito. L’origine del nome è Tres, a tre chilometri da Alba, il comune è nato solo nel 1957, ma lì vicino – a Pertinace – c’era la dimora dell’imperatore romano Publio Elvio Pertinace. È il paese caro a Beppe Fenoglio, che però non amo come Pavese. Ma eccoci in una piazzetta, con un edificio in puro stile fascista, affollata da automobili prestigiose, limousine e Ferrari. Entriamo nel ristorante (La Ciau del Tornavento, la ciau in piemontese significa la chiave) e mi sembra di essere in un elegantissimo ristorante di Parigi, come ho scritto oggi su “La Verità”. La sala era al completo, una cinquantina di posti. Camerieri, ragazzi e ragazze, in uniforme, solleciti e gentili. Mi siedo, con il mio amico, e una nuova conoscenza, Roberto Mostini, esperto, con un caratteraccio critico, di gastronomia.
UN RISTORANTE MOZZAFIATO!
Guardo il menù e impallidisco: pochissimi i piatti dal costo inferiore a 100 euro. Il profumo del tartufo, del resto, si sentiva fin dalla piazza… Mostini ordina vini eccellenti, in cuor mio mi preparo a tagliare molti regali dell’imminente Natale, ma per fortuna alla fine Cornelli vuol pagare il conto, senza possibili discussioni. E trascorro una serata leggendaria, cito solo i tagliolini preparati con 28 (non scherzo!) tuorli d’uovo dichiarati nel menù, che alla fine mi sarà regalato dallo chef Maurilio, autore del capolavoro. Per la mia collezione, un gentilissimo dono: il menù da solo per la carta, la grafica e i disegni, certamente sarà costato il doppio di quanto spendo in una trattoria romana, e mi vergogno a dirlo. Però, riflettevo mentre Mostini, probabilmente certo che alla fine il generoso Andrea avrebbe onorato qualsiasi ordinazione, si divertiva a esigere portate e portatine e i vini di maggior classe: questo è uno scampolo del vero miracolo italiano, il miracolo che tiene in piedi la nostra economia… Gli italiani geniali e tenaci, che in provincia lavorano sodo e con passione, fedeli alle loro radici e alla loro vocazione. Quanto mi esalta il loro orgoglio! Mica Maurilio è andato a proporre il suo genio a Torino o a Milano o a Roma… Ha imposto la sua qualità in un paesino e da mezza Europa accorrono per gustare le sue prelibatezze. E la capacità di resistere alle inevitabili, ottuse burocrazie, alla politica che non aiuta mai, ma semmai depreda e scoraggia? La chiave, anzi “la ciau”, è il lavoro, il lavoro, il lavoro. Migliaia e migliaia di italiani, che in diversi settori si affermano e aiutano la nostra barcollante economia. E, permettetemi di aggiungere, se ne fregano, una volta si diceva (ingiustamente) di Mazzini e Garibaldi, oggi direi (giustamente) di Renzi e della Boschi, delle risse per la Costituzione. Pensano al lavoro, concretamente (lavoro, lavoro, lavoro!), si affermano, investono denaro, sudore e fatica, e ci tengono in piedi.
UN ALTRO CAPOLAVORO? MARIA TERESA MASCARELLO
Mascarello è uno dei marchi di vini più famosi e qualificati. E io ho avuto il piacere di conoscere Maria Teresa Mascarello, erede di Giulio Cesare, il nonno, che creò la cantina nel 1919, e di Bartolo, il papà. Figlia unica, legata come pochi al mondo alle sue radici e al suo lavoro. Siamo a Barolo – il nome dice tutto –, anche qui nelle vicinanze di Alba. Cinque ettari di vigne, 35mila bottiglie all’anno, di cui quindici di barolo. Per scelta del nonno e del papà, anche Maria Teresa non vuole investire e allargarsi. Le basta il patrimonio che ha: in poche parole una clientela fedelissima, che di anno in anno le assicura il prevenduto. Ho voluto acquistare un paio di cassette, e ho dovuto faticare per riuscire a convincerla. Tanto produce e tanto vende. Mentre parla dei suoi vini, ci sono scintille di passione nei suoi straordinari occhi celesti. E allora le ho proposto di definire, con un solo aggettivo, ciò che coltiva e vendemmia. In ordine di importanza, forse meglio di affetto. Il barolo? Austero. Il barbaresco? Gentile. La barbera (rigorosamente al femminile)? Acida. Il nebiolo? Elegante. Il dolcetto? Fruttato. Infine, la freisa: vivace. Con una stupenda definizione: “È la nostra versione del lambrusco”. Non potevo non chiederle quale piatto affiancare a questi vari vini. Con il barolo, un arrosto, preferibilmente di agnello (non le piace la carne cotta nel vino, quindi niente brasato). Con il barbaresco, “che vive di luce riflessa dal barolo”, polenta e arrosto di vitello. La barbera l’affiancherete agli agnolotti. Il nebiolo e il dolcetto vanno bene quasi con tutto. La freisa, con una minestra di trippa (nel caso vi interessi, aggiungo che è uno dei miei piatti preferiti).
Per me, anche se non ho fede, Maria Teresa potrebbe essere una delle prove dell’esistenza di Dio. Onesta, rigorosa, spontanea, per di più con un insolito senso dell’umorismo. Deplora che nella sua cantina i magnifici suoi vini partono da giusti prezzi, diciamo, intorno a 50 euro, e a pochi metri o chilometri di distanza si doppiano e si triplicano. A farle visita arrivano non solo dal Piemonte e dal Nord Italia, ma perfino dalla Thailandia e da altri Paesi orientali. Riconosce che la freisa è un vitigno autoctono, radicato nel Monferrato e nell’Astigiano: ne produce 2mila bottiglie, le converrebbe coltivare quel terreno per il barolo e guadagnerebbe quattro volte di più, ma lei non rinuncia alle tradizioni familiari. Per puntiglio, prestigio e passione. Non aveva telefoni e telefonini, fino a qualche anno fa. Tuttora non ha un indirizzo e-mail. “Per proteggermi”, spiega. Vive per il suo lavoro e per i suoi vini, si allontana con fastidio dal suo paese, solo se è obbligata. Conoscete molte persone con questa anima e questa spina dorsale? Chi vuole trovarla, sa come e dove arrivare. Mi sembra di aver letto nel suo sguardo un intimo, malinconico punto interrogativo. Al momento non ci sono eredi, chi potrà mandare avanti un’azienda che (presumo io) vale decine di milioni? Però Maria Teresa è giovane, forse si pone questa domanda, ma non cerca risposte. Le ho consigliato d’istituire una sorta di premio Nobel per i grandi e tradizionali coltivatori di vino, per gli innovatori, per chi ha passione certa e autorevole nel settore; con il valore della cantina, il premio Mascarello potrebbe andare avanti per secoli. Chissà.
cesare@lamescolanza.com
20.10.2016