“Con quella faccia un po’così
Quell’espressione un po’così
Che abbiamo noi prima d’andare a Genova
E ogni volta ci chiediamo
Se quel posto dove andiamo
Non c’inghiotte, e non torniamo più…”
(Paolo Conte, “Genova per noi”)
ATTUALIZZANDO… L’EMOZIONE DI UN’ADOZIONE
Eccomi, Genova mia. Vi ho scritto ieri che ho passato un meraviglioso giorno, la festa di tutti i santi, nella mia città adottiva e mi sono impegnato a raccontarvela. Con emozione, ve lo dico subito. Perché si sa come sono le adozioni: ti danno tanto, ti tengono stretti al cuore, ma poi succede anche che ci sono momenti in cui vieni preso a calci in culo, senza indulgenze. Questa mescolanza, non a caso utilizzo una delle mie parole preferite, diventa un legame indistruttibile. A Genova sono arrivato quando ero un bambino, poi scappai di casa e finii a Cosenza, nelle Calabrie, dov’ero nato. Poi ritornai e me ne andai, poi ritornai e me andai ancora… Ora vivo a Roma, ma se torno a Genova, com’è stato l’altro ieri, ad ogni passo avverto emozioni, ricordi, nostalgie. Fitte al cuore. E perciò posso dirvi che sarò sincero, ma non riuscirò, per descrivere la mia Genova, a raggiungere l’arte inimitabile di Paolo Conte: “Macaia, scimmia di luce e di follia. Foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia”.
PRIMA DI TUTTO, LA FUGA DA CASA
Abitavamo dietro la Casa dello Studente, mio padre era impiegato in banca e voleva che, all’età giusta, prendessi il suo posto. Per il mio futuro, avevo tutt’altre idee. Mio padre era un uomo inflessibile, da bambino fino ai dieci anni mi frustava sulle gambe con un bel nervo di bue, che aveva conservato dalla sua esperienza in guerra: era un modo tradizionale, nelle famiglie meridionali, per educare i figli ribelli. Non lo detesto, per questo. Per altri motivi, sì: adoravo giocare al calcio e lui tagliava i palloni che acquistavo di nascosto. Mi presi una pleurite, che mi costò un anno di scuola, perché mi tuffavo in acque gelide, dopo le partite, per nascondere le mie trasgressioni, eliminare il sudore, tornare a casa fresco e pulito. Di più: odiava che io avessi cominciato a scrivere sui giornali, la frusta non c’era più, ma le paternali erano insostenibili. (Se interessa, il mio esordio, su “Il Corriere mercantile”, avvenne nel 1956, quando avevo quattordici anni, e così oggi ne festeggio sessanta, di anni di giornalismo).
Finì che scappai di casa a diciassette anni – all’epoca la maggiore età era a ventuno – e vissi due mesi fantastici in un albergaccio nei vicoli di Genova (ci sono versi, cercateli, di un altro grande, mio amatissimo cantante, Fabrizio De André, se volete capire e amare i vicoli), tra ladri e puttane. Mi mantenevo vendendo bibbie, porta a porta, con un mio coetaneo, di irresistibile simpatia. Oggi, si mobiliterebbero “Chi l’ha visto?”, gli enfatici programmi televisivi, forse polizia e giornalisti. All’epoca, vissi felice e libero, senza che nessuno si occupasse di me, e scoprendo la vita dal marciapiede (cosa che consiglio a tutti ma non permetterei ai miei figli), guadagnavo soldini per vivere: fino a quando, prima di Natale, mia madre chiese l’aiuto di un suo fratello di Cosenza, e fui recuperato in una famiglia lontana, distante mille chilometri. E a Genova tornai a venti anni, per iscrivermi all’università. Ci credete, se vi dico che ancora mi batte il cuore quando, dopo più di cinquant’anni passo davanti alla Casa dello Studente?
“IL SECOLO” E “IL LAVORO”: DUE GIORNALI NELLA MIA VITA
Piero Ottone, direttore del “Il Secolo XIX”, mi valorizzò e mi lanciò nel giornalismo, facendomi fare una carriera lampo. Prima, un altro grande direttore, Antonio Ghirelli, mi aveva insegnato i “fondamentali” del mestiere. Non ho mai capito se Ottone apprezzasse fino in fondo le mie qualità, o se avesse scelto di usare un giovanissimo tosto, come ero allora, per governare una redazione valorosa ma sonnolenta, impigrita, anziana. Poi Ottone andò a “Il Corriere della Sera”, e io, a trent’anni, mi trovai a dirigere di fatto quel grande giornale perché il direttore, Sandrino Perrone, viveva a Roma e non se ne staccava mai, era anche l’editore e si occupava di un’altra sua proprietà, “Il Messaggero”. Oggi, “Il Decimonono” non è più in via Varese ed evito, inconsciamente, di passare da quelle parti. Invece, quando passo da piazza Corvetto, l’emozione ritorna con violenza: “Il Lavoro”, il giornale socialista celebre perché fu diretto per ventidue anni da Sandro Pertini, aveva a due passi la sua storica sede. Accettai malauguratamente di essere anche l’editore oltre che il direttore de “Il Lavoro”, e mi rovinai economicamente.
Dopo tre anni, in malo modo, fui costretto a ritirarmi. Come ho detto, fui preso a calci in culo, per usare un eufemismo. Ricordo che un caro amico mi disse: “Genova è questa. Altrove ti avrebbero distrutto in tre mesi, oppure ti avrebbero sostenuto e reso indispensabile! Genova no, Genova sta a guardare…”. Potrei, o forse dovrei, scrivere un libro sulla mia città adottiva. Quanto ai giornali, posso dire che ai miei tempi ce n’erano cinque. Oggi, nessuno, se si considera che “Il Lavoro” è stato inglobato da “La Repubblica” e “Il Secolo” si è imparentato con “La Stampa”. “Il Corriere mercantile”, “Il nuovo cittadino” e “La Gazzetta del lunedì” non ci sono più.
I MIEI AMICI PIÙ CARI…
A Genova, oltre ad amori infiniti, profondi e capricciosi, mantengo le amicizie del cuore. Sono andato a Genova il primo novembre espressamente per incontrarne due. Gianni, Gianin, Bonelli: un ex grande politico che aveva in pugno la Liguria ai tempi di Paolo Emilio Taviani, e oltre. Anche lui, alla fine, maltrattato e incompreso. Oggi, maestro di enologia e gastronomia, campione di bocce e di “trente e quarante”, ricercatore sopraffino di funghi… E poi l’amico di sempre, quello che mi è stato vicino in ogni passo, assistendomi nei momenti più difficili e disperati, sostenendomi senza misura e senza moralismi: Andrea D’Angelo, avvocato, professore universitario, forse il maggior studioso di Proust, con un’infinità di altri pregi. Averne, amici come Andrea: niente mai ha tentato di insegnarmi, tutto dalla sua saggezza, dal rigore nel lavoro e nei rapporti, avrei potuto imparare: la mia vita sarebbe cambiata totalmente, avrei evitato, per errori impulsivi, molti momenti devastanti, infelici.
PICCOLI PIACERI, A PRANZO E A CENA…
A pranzo, grazie a Gianin, ho scoperto la cucina di Vico Palla, un’antica osteria nel porto, sul molo. Mi hanno regalato il menù (sono un collezionista). Con il menù una lunga filastrocca in genovese stretto, quattordici strofe divertenti, in cui allusivamente sembra che il poeta alluda al compagno di battaglie che i maschietti hanno tra le gambe. E invece alla fine si scopre che “o l’è o stocchefiscio”. Una delizia. Ci tornerò ogni volta che tornerò a Genova.
La sera, a cena a casa di Andrea, con lui e la sua fascinosissima moglie Luisa – che non posso esaltare come cuoca: non per incapacità, ma perché ha la fissazione di volermi più magro di una cinquantina di chili. Ho contato cinque ravioli in un brodo niente male, a seguire un polpo cucinato in un modo che, in una trattoria, contesterei con indignazione. Però, i miei amici, prima e dopo cena, sono stati come sempre un riferimento intellettuale e affettivo impareggiabile. E pensare che siamo divisi su Renzi, che loro apprezzano, e sui grillini, che io apprezzo e loro detestano; e loro votano sì al referendum, mentre io non voto, ma se votassi scriverei no a lettere gigantesche. Ho scoperto che Luisa, per una situazione dolorosa, adora ballare ed ascoltare “Mamma mia” degli Abba, che qualcuno forse ricorda ho scelto come la musica che mi accompagni al mio funerale. Quindi ho incaricato Luisa di vigilare su mia moglie, affinché il mio desiderio non sia tradito… Una magnifica serata, impreziosita ulteriormente dalla presenza di una loro amica, Stella, che insegna storia dell’economia.
I CINEMATOGRAFI SCOMPARSI DA VIA XX SETTEMBRE
E riecco la nostalgia canaglia. Nella principale strada di Genova, via XX Settembre, c’erano cinque sale cinematografiche: Olimpia, Verdi, Universale, Orfeo, Lux. Non so neanche a quale fossi più affezionato, tanto mi piacevano, anche al mattino quando facevo sega a scuola, e poi negli anni a vedere film insieme con gli amici e le mogli. Che dolore! Per fortuna, a Carignano, ha resistito il mitico Corallo.
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URGE UNA STRATEGIA PER GENOVA
Finisco qui, per ragioni di spazio, ma tornerò presto con i miei ricordi, sperando di non annoiarvi troppo. Mio padre e mia madre, mia sorella e i miei nipoti, tanti altri amici… E il Genoa! Oggi, cos’è la mia Genova? Ai miei tempi c’era un porto ancora fantastico, c’era una città industriale, Ansaldo e Italsider e tanto altro, c’era una politica ancora viva… Oggi, mi sembra una città fantastica per viverci, e ci tornerei fino alla fine dei miei giorni, ma non per lavorarci. Ho visto, con sorpresa, decine di autobus e piccole folle di turisti. E forse questa, per il futuro, potrebbe essere la scelta strategica giusta, un’identità apprezzabile, per la “mia” straordinaria città, una striscia incantevole di terra, stretta tra mare e colline.
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03.11.2016