“Chi aveva meno voglia di giocare vince”. (Arthur Bloch, Legge di Thomas, “La legge di Murphy II”, 1980)
ATTUALIZZANDO… NON É GIUSTO PERDERE AI RIGORI
Il campionato europeo sta proponendo molte partite che si prolungano fino ai tempi supplementari e, successivamente, ai calci di rigore. Per me è una regola crudele e ingiusta. Chi ha giocato al calcio sa bene quanta amarezza possa lasciare una sconfitta subita in questo modo. E spesso succede che, per un rigore indovinato, la vittoria vada a premiare la squadra meno brillante, la più fortunata. Che cosa fare? Per le partite di finale, quelle decisive per vincere una coppa o un torneo, consiglierei – intanto – di ripristinare, in caso di pareggio, la ripetizione della partita, come
si faceva qualche decina di anni fa. L’evento sarebbe molto positivo per lo spettacolo, per i tifosi, per le televisioni. Da escludere, invece, il sorteggio, metodo ancor più bizzarro. Per tutte le altre partite (e per la ripetizione di una finalissima, in caso di nuovo pareggio) suggerirei un metodo simile a quello della boxe: una giuria che decida la vittoria ai punti, facendo la somma di alcuni valori importanti ormai registrati tecnologicamente minuto per minuto: il possesso palla, i tiri in porta, i falli commessi, le ammonizioni, le espulsioni. Da eliminare i tempi supplementari, in modo che due squadre diano il meglio, nei novanta minuti. Per ragioni di spettacolo, si potrebbero anche tirare i rigori, ma senza assegnare a questa sfida un valore, un punteggio, decisivo. Importante è la buona ragione di dare il successo alla squadra più meritevole: del resto più o meno così si fa, per determinare la classifica del campionato.
Adoro il Portogallo, mi piacciono i portoghesi. Ma vi sembra giusto che nel campionato europeo in corso la squadra portoghese arrivi alle semifinali senza aver vinto una partita, dopo quattro pareggi (di cui tre, se non sbaglio, determinati dai calci di rigore)? Cito il Portogallo come esempio, ma la stessa riflessione vale per qualsiasi altra squadra, nella medesima situazione. “A vincere senza pericolo, si trionfa senza gloria” (Pierre Corneille, “Il Cid”, 1636): quattrocento anni fa. E i rigori non sono un pericolo, ma una sentenza arbitraria. Aggiungo che i tempi supplementari vengono, spesso, giocati con rilassatezza perché tutti gli atleti preferiscono giocarsela ai rigori anziché rischiare di essere eliminati per demerito, per un gol subìto negli ultimi minuti. Si tratta dunque anche di elevare la qualità del gioco e dello spettacolo. E per ultimo vi ricordo una bella battuta tratta dal cinema: “Si vince o si perde, resta da vedere se si vince o si perde da uomini” (Tony D’Amato – Al Pacino, in “Ogni maledetta domenica”, 1999).
REFUSI E SCIATTERIE / CHIEDO SCUSA (NON SOLO) A PIERO OTTONE…
Sapete che spesso ho scritto, e ribadisco, che detesto le sciatterie, le volgarità, le imprecisioni, le approssimazioni sempre più frequenti nella vita italiana, nel lavoro di tutti. É un segno di decadenza, tempo irreversibile. Ebbene, ieri, questo diario conteneva molti refusi, o sviste, chiamateli come preferite: comunque segni di evidente sciatteria. Chiedo scusa a tutti i lettori, e in particolare al mio ex grande direttore Piero Ottone, che più di tutti – a mia memoria – del giornalismo detestava le sciatterie – col suo stile freddo, anglosassone. Debbo a lui (che mi assunse a ventisette anni – nel 1969 – come capo dello sport al Secolo XIX, e poi mi promosse caporedattore e mi aprì la strada per la vicedirezione, nonostante (o forse proprio per questo) fossi il più giovane della redazione.
Un mio amico, Franco Bellino, lettore affezionato ma implacabile, mi rimprovera, irridendomi, il refuso più risibile: volevo scrivere che Pallotta, proprietario e presidente della Roma, non pensa a creare una squadra scudettabile. È uscito “sculettabile”, di ben altro significato, visto che aggiungevo che i tifosi sarebbero pazzi, per veder realizzato questo sogno! Il severo Bellino non si è accorto, o forse si è impietosito: non mi ha rimproverato che “sculettabile” è uscito due volte, anche in riferimento al Napoli. Una catastrofe, per chi predica – come me – l’indispensabilità di avere attenzione e rigore. Perciò auguro lo scudetto alla Roma e anche al Napoli, spero che Ottone mi giustifichi (vi propongo con civetteria, per consolarmi, questa fotografia che risale all’epoca in cui mi assunse, quarantasette anni fa!), e soprattutto prometto a tutti i lettori una maggior attenzione, per il futuro.
É MORTO ATTILIO GIORDANO
A soli 61 anni, per un male incurabile. Siciliano di origine, ma fin da ragazzo cresciuto a Genova. Era un bravissimo giornalista, di forte personalità, responsabile del “Venerdì” di Repubblica. Aveva lavorato con me al “Lavoro” di Genova, in due occasioni diverse. Nella prima, ero direttore sulla base di un accordo tra l’editore, Rizzoli, e la cooperativa di giornalisti e tipografi. Credo che mi stimasse e avesse simpatia per me, sia pur in minima dose: era un ribelle fisiologico, controcorrente per temperamento. Vedevo le sue qualità, ma non riuscii a creare un rapporto confidenziale. La seconda volta, quasi un disastro: oltre alla direzione, avevo un incarico di proprietà editoriale, mal sopportato dai giornalisti. Attilio, con un incarico sindacale, mi fece vedere i sorci verdi, anche perché (fine anni settanta, inizio ottanta) a mia volta non avevo certo un carattere disponibile a mediazioni e compromessi. Comunque, i giornalisti mi rifiutavano, i tipografi no. Incassai la bellezza di tre giorni di sciopero, e fu una delle mie (bizzarre) esperienze di vita e di lavoro. Sostenuto dai tipografi, che ben valutavano la gravità di tre giorni consecutivi di sciopero per un giornale di povere risorse. Così, per tre giorni, follemente combattivo, feci uscire il giornale confezionandolo da solo, col sostegno di Raimondo Lagostena, un giornalista che però era addetto alla gestione amministrativa, e di un collega dello sport, l’unico a non aderire allo sciopero. Giorni straordinari, indimenticabili. Dopo tre giorni lo sciopero si concluse e vissi tre anni, e più, pieni di ebbrezze fatte di tormenti e non trascurabili soddisfazioni.
Paradossalmente, come spesso succede nella vita, dopo la mia uscita con Attilio si creò un filo – robusto – di amicizia e di rispetto. Lui era stato adottato e lanciato dal mio successore, Franco Recanatesi, un amico, solo leggermente meno squilibrato di me. Frec, così lo chiamavo, lo portò con sé a Torino, Napoli e infine a Roma, al “Venerdì”. Attilio ebbe una crescita importante, non frequente tra i giornalisti: bravo e lucido nell’organizzazione del lavoro di redazione, altrettanto bravo e meticoloso, ingegnoso come scrittore e inviato (in mezzo mondo). A farla breve, passo dopo passo, Giordano, sostituendo Laura Gnocchi, approdò alla direzione del “Venerdì” e lì, per anni, ha dato al settimanale un’impronta “sua”. Corretto nelle impostazioni editoriali del gruppo, con un’evidente vocazione alla cultura e a invenzioni fantasiose. Elegante sempre, brillante. Tanto tempo fa aveva approvato e sostenuto la mia idea di creare a Genova una piccola casa editrice, ricordo che gli piacque il nome, “Fontane marose” – che ebbe vita breve e fu anticipatrice de “L’attimo fuggente”, che festeggia il decimo compleanno, e del sito “La Mescolanza”, in vita nel web da molti lustri. Attilio aveva qualità particolari, anche sul piano umano: ricordandolo oggi, avverto il rimpianto di un’amicizia che poteva diventare più forte e assidua.
cesare@lamescolanza.com
01.07.2016