Il direttore della «Repubblica» viaggia, gira, conosce gente: un super valutato. Ferruccio de Bortoli è il mio allievo più famoso: sorride, dice parole garbate, ma non muove un dito
Seconda puntata del racconto sul giornalismo italiano dell’ultimo mezzo secolo. Come ho spiegato ieri, non ho alcun titolo per distribuire pagelle, a parte i 60 anni di militanza giornalistica che mi ritrovo sulle spalle.
Ferruccio de Bortoli (Milano, 20 maggio 1953). Lo assunsi al Corriere d’Informazione, prendendolo dal Corriere dei Ragazzi, dove aveva esordito come praticante. È stato, tra i miei allievi, quello che ha avuto maggior successo: due volte direttore del Corriere della Sera per un record, in totale, di permanenza; di passaggio, la direzione del Sole 24 Ore. Lo arruolai sulla base di un colloquio (come ho fatto sempre con tutti, senza mai cedere a raccomandazioni di qualsiasi tipo), intuendo che mi trovavo di fronte a un dirigente nato e vestito (arrivava in redazione in blazer blu, i suoi coetanei in jeans sdruciti e maglietta). Ed è stato, per precisa vocazione, quello che mi ha deluso maggiormente, sul piano umano. Come mi avevano detto in tanti, anche suoi amici, non fa mai niente per niente: sorride con dolcezza, dice parole garbate e convenzionali, ma non muove un dito. Non volevo crederci, infine mi sono arreso. Qualche giorno fa, per futili motivi: con una motivazione sciocca. Non si è preso il disturbo di intervenire alla festa per i miei 60 anni di giornalismo. Lui, il presunto fiore all’occhiello della mia carriera. So bene di apparirvi infantile, la mia permalosità calabro-ligure è evidente. Ma non ne potevo più delle sue ariette (impeccabili) di predestinato a essere primo della classe. Ho scritto, e ribadisco, che non voglio avere più alcun rapporto con lui. Potrei scrivere un librino, analizzando i suoi comportamenti in chiave psicologica. Sarebbe divertente, ma non lo farò. Per onestà intellettuale, sono obbligato a riconoscere le sue qualità straordinarie. L’ultima prodezza è quella di aver capito, tra i primi, la dimensione piccola di Matteo Renzi. Difficile immaginare che cosa abbia avuto in mente, attaccandolo con inusuale crudezza: non mi stupirei, caduto Renzi, se pensasse di tornare dominus in via Solferino, se non ancora direttore per la terza volta, come un redivivo Richelieu. Cardinalizio.
Agostino Sacca (Taurianova, 7 febbraio 1944). Qualcuno lo ha definito un tramologo. Non è giusto: è uno stratega, convinto, per la sua abilità, di poter infinocchiare tutti i potenti con i quali intrattiene i rapporti, distribuendo sorrisi e promesse. Forse vale per lui la celebre definizione di Abramo Lincoln: «Puoi prendere in giro qualcuno tutte le volte, e tutti una volta. Ma non tutti, tutte le volte». È arrivato alla direzione generale della Rai, grazie anche a qualche mio suggerimento per giusti comportamenti. E ha fatto molto per me, forse ritenendo di sdebitarsi: gli ero stato molto vicino, in ogni senso, pubblico e privato. È franato al top della sua scalata: al mondo politico aveva fatto troppe promesse, impossibile mantenerle tutte, con tutti. Si è illuso, probabilmente, di mettere nel sacco perfino Silvio Berlusconi, notoriamente capace di mangiarsene 100 come lui, a merenda. E le intercettazioni delle loro telefonate sono significative: si intravede una gara, non per chi ce l’abbia più duro, ma per chi sia più sottilmente scaltro. Per me, come per il volpino Ferruccio, l’amarezza è stata grandissima. Punto. Deludente.
Giuliano Ferrara (Roma, 7 gennaio 1952). Principe della scrittura, certamente il migliore, il più colto e raffinato. Ma è stato assai più di uno scrittore: ministro nel primo governo Berlusconi, formidabile direttore di Panorama e poi fondatore del Foglio: 10.000 copie per un pubblico di élite, con un numero – il sabato – di particolare fascino. Quando dirigeva Panorama, mi diede una delle più forti emozioni della mia carriera. Avendo saputo di una mia particolare serata a chemin de fer al casinò di Saint Vincent, mi chiese di raccontarla dandomi istruzioni che a qualsiasi direttore farebbero venire l’orticaria: «Scrivi quanto vuoi, come vuoi, non preoccuparti se i lettori non capiscono i termini tecnici». Galvanizzato dalla fiducia e dallo snobismo efferato, scrissi uno dei miei pezzi migliori. Lo adoro. Ci sono i giornalisti e poi c’è Giuliano Ferrara. È necessario aggiungere altro? Qualità superiore.
Fortebraccio, all’anagrafe Mario Melloni (San Giorgio di Piano 25 novembre 1902 – Milano, 29 giugno 1989). Prima democristiano, direttore del Popolo, espulso da Amintore Fanfani, poi comunista e corsivista sulla prima pagina dell’Unità, con un sarcasmo colto e di inarrivabile finezza. Adorato da Indro Montanelli, con cui spesso intrecciò divertenti polemiche, e da un pubblico borghese elitario. L’ho frequentato in qualche cena a Milano negli anni Settanta, la padrona di casa gli era legata, con evidenza, affettuosa e gelosa, nonostante la presenza del marito. Ricordo un piacere sommo nell’ascoltarlo, per l’ironia fine ed educata (che poi diventava feroce negli scritti). Un maestro di etica e di sapienza nel demolire gli avversari politici. Folgorante.
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Massimo Fini (Cremeno, 19 novembre 1943). È uno degli spiriti liberi tenuti alla larga dai grandi giornali, per timore delle sue provocazioni. Si è rifugiato nei libri e ha avuto un successo meritatamente strepitoso. Eravamo molto amici, 0 almeno io sentivo per lui una forte e istintiva amicizia. Le mie recensioni dei suoi libri lo deliziavano. Non ha mai mosso un mignolo per me, ma non mi interessava: per lustri. Poi, qualche mese fa, abbiamo rotto: nell’uscita del suo ultimo libro mi ha spedito un velenosissimo messaggio, insultandomi e accusandomi di aver scritto cattiverie e volgarità a cui neanche avevo pensato. Mi aveva confuso con qualcun altro, neanche mi aveva letto, chissà a chi si riferiva. L’ho mandato a quel paese, ha risposto con banali messaggi di pace. Fine del film. È un grande nella scrittura, vanitoso come nessuno: un giorno mi ha confidato che passa molte ore leggendo e rileggendo i suoi articoli e i suoi libri. Il mondo, per lui, ruota intorno all’ombelico delle sue opinioni. Vanitoso.
Alberto Cavallari (Piacenza, 1 settembre 1927 – Levanto, 20 luglio 1998). L’ho conosciuto poco, ma è nel mio carnet di riferimenti. Anche lui come Piero Ottone è scappato dal Corriere quando fu nominato direttore Giovanni Spadolini. E come Ottone vi tornò da direttore. Ma non era un direttore: era uno scrittore, un inviato. I suoi libri sono perle. Se non lo avete già letto, cercate La fuga di Tolstoj, il racconto della fuga da casa dell’ultraottantenne scrittore russo: un capolavoro. Malinconico.
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Agazio Loiero (Santa Severina, 14 gennaio 1940). Come politico, ha raggiunto traguardi importanti: due volte ministro, governatore della Regione Calabria (non rieletto, per la troppa sicurezza di vincere e per l’ostilità di organizzazioni criminose). Dunque è giusto, alla luce del successo, che si dispiaccia per ciò che penso di lui: non avrebbe dovuto lasciare il giornalismo, avrebbe dovuto scrivere e scrivere e scrivere, articoli e libri. L’ultimo, una serie di ritratti intitolata Lorsignori di ieri e di oggi (Rubbettino) – lorsignori era un’espressione di Fortebraccio – è imperdibile: una carrellata, equilibrata tra ironia e capacità di comprensione, dei politici che hanno fatto e disfatto l’Italia. Un limite? È anche un merito: aver cambiato schieramento più di una volta, offendendo così i capibastone che decidono secondo fedeltà più che per qualità. Indeciso.
Roberto Gervaso (Roma, 9 luglio 1937)- Produttore di aforismi e di battute, mercé di cui sono ghiotto. Mi stima e mi vuol bene, ricambiato. Non me ne può fottere di meno delle fanfaluche sulla sua appartenenza alla P2, con cui hanno tentato di metterlo fuori gioco. Ex partner di Montanelli per i libri divulgativi di storia. Anche lui, come pochi altri, ha dato al giornalismo assai più di quanto abbia ricevuto. Ironia leggera, popolare: piace, non offende. Spiritoso, ideale per dibattiti e conferenze. Affabulatore.
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Gianni Minà (Torino, 17 maggio 1938). L’ho frequentato solo in gioventù. Non è simpatico a molti nei rapporti personali, ma è un recordman assoluto per l’empatia con i protagonisti dell’attualità, con la capacità di impostare immediatamente relazioni amichevoli e confidenziali: da Cassius Clay a Fidel Castro, alle star di Hollywood. Ha sempre odiato il giornalismo da scrivania. Irresistibile in prima lìnea, bene anche in televisione. Accattivante.
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Stefano Lorenzetto (Verona, 11 luglio 1956). Per 17 anni – è entrato per questo nel Guinness dei primati – ha firmato sul Giornale paginoni di interviste con persone e personaggi d’ogni caratura: famosi e sconosciuti, meritevoli e stravaganti, eroi incompresi e umili cittadini. Sempre con oggettività e rispetto, senza giudicare, senza la minima arroganza, senza voler sovrapporsi alla personalità dei suoi intervistati. Un miracolo di equilibrio e acume, che si è riprodotto in molti libri di analoga strutturazione. Credo che non abbia mai offeso nessuno. Il giornalista che avrei voluto avere con me in tempi remoti al Lavoro di Genova (e rifiutò, per amore del suo Veneto), drastico e inflessibile nelle «sue» regole per la costruzione di un giornale al servizio dei lettori. Ma sempre pronto a dare una mano a chi abbia bisogno. Altruìsta.
Sergio Zavoli (Ravenna, 21 settembre 1923). Al Corriere dello Sport, negli anni Sessanta, Antonio Ghirelli gli chiese di collaborare con una rubrica quotidiana prendendo spunto dal celebre Processo alla tappa del Giro d’Italia. Mi fu affidato il delicato compito di «passare» il suo pezzo. Un giorno, impaginando in fretta, collocai la rubrica in maniera improvvida, dimessa. Zavoli telefonò a Ghirelli e interruppe la sua collaborazione, senza accettare scuse. Sdegnoso.
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Giampaolo Pansa (Casale Monferrato, 1 ottobre 1935). Un mito per me, e non solo: Guido Vigna ha scritto che era un idolo per i giovani del Giorno, al contrario di Giorgio Bocca, intrattabile (pretendeva che gli si desse del lei). Revisionista sulla Resistenza, con un coraggio smisurato: ha affrontato attacchi aggressioni pericolose!) e ostilità superficiali e diffuse. Scrive con originalità, avrebbe meritato la direzione della Repubblica 0 dell’Espresso: il suo carattere orgoglioso e per niente incline a compromessi lo ha emarginato.
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Gian Antonio Stella (Asolo, 15 marzo 1953). Quando lo assunsi al Corriere d’Informazione, su segnalazione di Camilla Cederna, era un ragazzino, sembrava simpatico e dolce. Poi è rimasto simpatico, almeno per me e per i suoi numerosi ammiratori, ma altro che dolcezza! È diventato una tigre come inviato e opinionista, sempre fedele al Corriere, nel denunciare spietatamente abusi e malefatte della classe dirigente. Combattivo.
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Enzo Biagi (Pianaccio di Lizzano in Belvedere, 9 agosto 1920 Milano, 6 novembre 2007). Un padreterno per noi ragazzi, grande, indimenticabile direttore di Epoca e del telegiornale unico della Rai (durò poco, solo un anno). Riusciva a fare qualsiasi cosa, nel giornalismo, con una disinvoltura che non ho mai visto in altri: come se fosse nato con il vestito del cronista (questo era, nel sangue) cucito addosso. In anni più recenti, estromesso dalla Rai in maniera indecente dai servi di Berlusconi. Nessun altro, tranne Giuliano Ferrara, ha raggiunto i vertici di prestigio, e anche di ascolto, della sua rubrica in onda dopo il Tg1. Essenziale, scarno, incisivo e mai offensivo. Mi incantava, ogni volta che lo incontravo, con i ricordi, i giudizi, le opinioni. Esemplare.
Mario Calabresi (Milano, 17 febbraio 1970). È un buon corrispondente, un ottimo inviato. Ma, se non fosse stato figlio del povero Luigi Calabresi, ucciso dai terroristi, non sarebbe mai arrivato alla direzione della Stampa, e ancor meno a quella, ambitissima, della Repubblica. Ezio Mauro, il suo predecessore, non staccava il sedere dalla sedia, dal mattino alla sera. Invece Calabresi, a Roma come a Torino, accetta qualsiasi invito, viaggia, gira, conosce gente. Accolto generosamente nelle stanze dei bottoni e dei salotti d’elite. In edicola, non pervenuto.
Antonio Ferrari (Modena, 3 novembre 1946). Quando Ottone si trasferì dal Secolo XIX al Corriere della Sera, portò con sé solo un giovane cronista: Ferrari. E da lì, un passo dopo l’altro in carriera, non si è mai schiodato. Ha scritto centinaia di articoli, interviste, cronache, analisi, perfino opinioni: nel più assoluto grigiore. Qualcuno ricorda anche solo un suo pezzo? Non rintracciabile.
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Vittorio Bruno (Roma, 15 novembre 1935). Il 1° giugno 1977 fu il primo giornalista ferito alle gambe dalle Brigate rosse, a Genova. Imprevedibile notorietà! Per sfortunata coincidenza, ci fu un analogo attentato, a Milano, vittima Montanelli, anche lui gambizzato. E tutte le attenzioni si concentrarono su Indro. Era arrivato al Secolo XIX, senza infamia e senza lode, subito dopo la mia partenza. Routìnier.
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04.01.2017