Da direttore del «Corriere d’Informazione» dovetti decidere se nominarlo capo della redazione romana. Scelsi invece Guido Vigna. Lui rimase a seguire le Br a Milano e fu ucciso
Siamo alla terza puntata di queste pagelle (molto personali) sui colleghi, noti e meno noti, che ho conosciuto in 6o anni di carriera giornalistica.
I TELEVISIVI
Bruno Vespa (L’Aquila, 27 maggio 1944). Prostata di ferro: durante le maratone televisive, non va mai in bagno. Abilità mostruosa nella gestione dei rapporti e nella difesa del suo programma storico, Porta a porta. Intoccabile: tanti desideravano farlo fuori, nessuno ci ha mai provato seriamente. Una sicurezza d’acciaio nel suo cervello: «Sarò ancora qui quando voi non ci sarete più», di fronte a una dozzina, al minimo, di direttori generali e di consiglieri di amministrazione della Rai. Non credo di essergli simpatico, però mi ha invitato qualche volta al suo talk. Apprezzabile per l’equilibrio (fisiologicamente è governativo e attento, ma non devoto, a chi è al potere), un mix complicato tra qualità giornalistica, rispetto verso i potenti, esigenze dei telespettatori. Sia pur con qualche inevitabile infortunio, non si asservisce e raramente è arrogante. Scrive libri interessanti, che promuove minuziosamente. Perfezionista.
Enrico Mentana (Milano, 15 gennaio 1955). Antagonista di Vespa nelle maratone: stragi, terrorismo, elezioni… Una bella lotta, forse Enrico ha il vantaggio, a La7, di poter stravolgere il palinsesto come vuole. Si affermò come Mitraglietta, per la velocità con cui dava le notizie di tutti i tiggì che dirigeva. Oggi Maurizio Crozza lo prende per i fondelli per la lentezza con cui parla. È astuto e abile: è riuscito a far dimenticare la sua fervida attività per i giovani socialisti, ha strapazzato Matteo Renzi. Nessun particolare rapporto con lui: buongiorno e buonasera, se ci incontriamo, come Spalletti e Totti, ma lui è un campione e io non sono l’allenatore, non abbiamo la stessa casacca. Per il padre, reporter sportivo di qualità, avevo vera simpatia. Misurato.
Clemente J. Mimun (Roma, 9 agosto 1953). La «J.» sta per Jackie. Suo padre, patito di Charlie Chaplin, volle dargli quel secondo nome per ricordare Jackie Coogan, l’attore protagonista del Monello. Ho avuto, come tutti, rapporti corretti con lui. Senza macchie, miracolosamente, anche se ha diretto, in Rai e in Mediaset, telegiornali sotto sorveglianza politica, berlusconiana. Non osa più di tanto, ma non nasconde le notizie: una persona perbene, un gentiluomo a suo agio – con ironia – nel Palazzo. Ha superato un brutto colpo di salute. Sa valutare uomini e cose. Professionista.
Piero Angela (Torino, 22 dicembre 1928). Curava uno spazio della mia prima Domenica in. Ammiravo la sua professionalità: geloso del suo lavoro, a scanso di equivoci e di errori portava in scena il suo pezzo già registrato in una cassetta, salutava educatamente e se ne andava. Mi sarebbe piaciuto lavorare con lui e/o con suo figlio Alberto, ma non ci sono state altre opportunità. Scientifico.
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Andrea Barbato (Roma, 7 marzo 1934 – Roma, 12 febbraio 1996). Gran conduttore del telegiornale, come Arrigo Levi e Piero Angela, in una fortunata stagione della Rai. Successivamente, la sua «cartolina» a conclusione del tg resta il modello di una rubrica tanto sobria quanto incisiva. Lo ricordo con stima sia perché era un giocatore (amava le corse dei cavalli), sia perché scrisse una lunga, intelligente e critica analisi degli eccessi e delle volgarità del mio settimanale Contro, irriverente e temerariamente impertinente. Snob.
Maurizio Costanzo (Roma, 28 agosto 1938). La sua popolarità è esplosa con Bontà loro, il primo talk show di Rai 1, negli anni Settanta, realizzato ogni sera con pochi soldi, in uno studio misero e con un paio di ospiti importanti. Un autentico signore della tv, incolpevole del mucchio selvaggio di dibattiti organizzati per decine di anni da tutte le televisioni con presunzione e, a volte, grottesche velleità. Con il Maurizio Costanzo show ha costruito una serie infinita di rapporti di potere, divenuti un baluardo insormontabile per chi volesse attentare alla sua poltrona. Assai meno efficace la presenza nella carta stampata. Gli fu affidato L’Occhio, il primo e unico tentativo di varare un tabloid popolare, all’inglese. Un flop. Speravo di essere scelto, avevo studiato il giornalismo popolare per anni, The Sun e il Daily Mirror, ma non ebbi questa fortuna. E forse, come Maurizio, non sarei stato all’altezza. Diplomatico, affabile e gentile.
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Luigi Bisignani (Milano, 18 ottobre 1953). Ancor oggi molti si ostinano a considerarlo un faccendiere, un uomo potentissimo negli affari e nelle intermediazioni, grazie a un elenco interminabile di relazioni di potere, che lo hanno portato a essere inquisito e impelagato in varie vicende giudiziarie. In realtà, è un simbolo di intelligenza pura. Ha avuto molto potere e ancora lo conserva. Si è sdoganato, tornando alle sue origini di giornalista, con un libro sulla sua vita, recensito da tutti, e poi con un’assidua attività come opinionista per II Tempo. È informato, lucido, indulge a previsioni e provocazioni molto seguite. Lo incontro sempre con diletto. Complesso.
Guido Gerosa (Fiume, 22 giugno 1933 – Rozzano, 15 febbraio 1999). Inviato, scrittore, deputato. Lo assunsi come responsabile della redazione romana del Corriere d’Informazione. Estroverso, ottima qualità di scrittura, sempre desideroso di nuovi traguardi. Inquieto.
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Edoardo Raspelli (Milano, 19 giugno 1949). Gli cambiai letteralmente la vita. Era un cronista dell’edizione del pomeriggio del Corriere, passava per uno scansafatiche, ma non era vero. Lo chiamai e gli dissi: «O ti mandiamo al Corriere dei Piccoli, oppure vediamo come te la cavi in una rubrica che ho in mente da tempo: recensioni spietate e severe dei ristoranti di Milano». Accettò con entusiasmo e fu la scelta della sua vita: una prodigiosa carriera come esperto di gastronomia. Poi, un grande successo anche in televisione con un programma, Melaverde, in onda prima su Rete 4 e oggi su Canale 5. Costante, inesausto.
Aldo De Luca (Siena, 7 luglio 1945 – Roma, 18 aprile 2013). Sosia di Achille Occhetto al Bagaglino, firma importante degli spettacoli del Messaggero, sempre presente ai Festival di Sanremo e di Venezia, e a Miss Italia. Brillante, altruista, disponibile: compagno di zingarate e di avventure. È morto improvvisamente e misteriosamente dopo una cena a base di sushi. Lo abbiamo pianto con parole anomale al suo funerale, come sarebbe piaciuto a lui: sperando che potesse resuscitare da un momento all’altro, dicendo che ci aveva fatto uno scherzo. Lieve.
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Mauro della Porta Raffo (Roma, 17 aprile 1944) Il Gran Pignolo, così lo battezzò Giuliano Ferrara. Ha il nome più lungo del mondo: Mauro Maria Romano della Porta Rodiani Carrara Raffo Dandi Gangalandi di casa Savelli. Ferrara intuì la sua grandezza e gli affidò su Panorama la rubrica The other place, in cui rivelava gli errori del settimanale antagonista, L’Espresso. Giocatore d’azzardo, cultura ed erudizione da record universale, insieme con la qualità della memoria. Adoratore di Piero Chiara. Inesorabile.
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Antonio Padellaro (Roma, 29 giugno 1946). «Su Silvio Beriusconi ho scritto qualsiasi cosa tranne, forse, che avesse crocifisso Gesù Cristo». Poi lo ha incontrato ad Arcore e lo ha definito «persona cortese, gentile, veramente squisita, come si diceva una volta». È stato direttore corretto e misurato dell’Unità e del Fatto Quotidiano». Orgoglioso.
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Gigi Moncalvo (Gavi, 13 agosto 1950). Il più veloce, dinamico e intuitivo tra i miei allievi. «Un pazzo scatenato», secondo molti giudizi. E certamente per il suo carattere, che non conosce la rinuncia, ha perduto l’opportunità di conquistare le poltronissime dell’editoria. Per il resto, non si è fatto mancare nulla: libri al limite della temerarietà, come Agnelli segreti e il più recente I Caracciolo, in cui affronta e indaga senza riserve né reticenze i retroscena più reconditi dei poteri intoccabili in Italia. Con documentazioni stupefacenti. Ottimo conduttore televisivo in Rai, anche in questa veste senza compromessi, spigoloso, appuntito. Emarginato, vive nel suo rifugio in Piemonte. Quando gli parlo, a ogni minuto che passa gli vengono cinque idee, potrebbe inventarsi da solo un giornale intero. Indomabile.
Paolo Graldi (Bologna, 27 maggio 1942). Tra i più informati nelle cronache giudiziarie. Ha diretto II Mattino e II Messaggero, è stato il primo a intervistare Ali Agca e Tommaso Buscetta. Tra le sue qualità, non secondarie, la simpatia e l’abilità in cucina (favolosi i tortellini, non meno le lasagne), che derivano dalla sua origine emiliana. Devoto a Enzo Biagi. Passione segreta: la televisione. Bon vivant.
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Maurizio Barendson (Napoli, 9 Novembre 1923- Roma 24 Gennaio 1978). Molto amico di Antonio Ghirelli, partner con lui in televisione, e con Paolo Valenti, di programmi sportivi di successo. Lo ricordo perché negli anni Sessanta fu uno dei miei giudici per l’esame di giornalista. Mi chiese: «Disegna una prima pagina per raccontare queste tre notizie: la Nazionale che vince il campionato europeo, Nino Benvenuti che conquista il titolo mondiale, Felice Gimondi che si impone nel Tour de France». Me la cavai, alla scuola di Ghirelli avevo imparato molto. E spiegai perché avessi dato la preferenza al calcio, poi al ciclismo, infine alla boxe. E invece Ghirelli con un sorriso commentò: «Io avrei fatto un titolone unico sull’Italia che vince, con tre foto e tre pezzi a scendere, e un commento per tutti e tre gli avvenimenti». Ero promosso, ma avrei voluto precipitare sotto terra. Scacchista.
Carlo Rossella (Corteolona, 19 ottobre 1942). Per pura perfidia, avrei voluto inserirlo tra i super valutati. Ma sarebbe stato un colpo basso, a causa di un mio legittimo risentimento. Una volta ha perso una scommessa con me, per una previsione su un risultato elettorale. In palio un pranzo, che non ha mai pagato. Per un giocatore come me, è insopportabile: le scommesse si onorano. Gliel’ho rinfacciato molte volte. Silenzio assoluto. La rubrica Alta società, che da anni firma sul Foglio, è ridicola: soffietti periodici ai suoi amici. Una volta ne parlavo con il suo grande amico Diego Della Valle, che commentò con una risata: «Gli ho detto: se scrivi quella rubrica per far la figura del coglione, ci riesci perfettamente». Carletto ha diretto il Tg1 e giornali importanti, ha sfiorato perfino il Corriere della Sera. Grandi qualità incompiute: irrisolto, un uomo di mondo. Quando dirigeva La Stampa, aveva attaccato al muro, alle sue spalle, la foto di Gianni Agnelli; quando arrivò al Tg1, la foto del Papa. Tattico.
Marco Benedetto (Genova, 26 gennaio 1945). Superstiziosissimo, sospettosissimo. Intelligenza superiore: a 20 anni noi ragazzi sognavamo di firmare in prima pagina, di fare gli inviati. Chissà, in futuro, anche i direttori. Lui era avanti di 30 anni: andava a Londra e New York, studiava il giornale nella sua complessità: redazione, amministrazione, stampa, diffusione, pubblicità. Non a caso è diventato amministratore della Stampa e poi, del gruppo che pubblica L’Espresso e La Repubblica, dove per lustri è stato il pupillo dell’editore Carlo Caracciolo. Il suo sogno era di dirigere un giornale: ne ha fondato uno su Internet, Blitz. Vive a Roma in solitudine, in un castello medievale: legge solo i giornali e i libri stranieri, nella lingua originale. Offre a me e agli ospiti (ben selezionati) una focaccia al formaggio più allettante di quella di Recco. E la prodigiosa intelligenza nella senilità si è inasprita: in una salsa bonariamente cinica, in battute sprezzanti e folgoranti. Strategico.
GLI EROI
Walter Tobagi (Spoleto, 16 marzo 1947 – Milano, 28 maggio 1980). Quando ero alla direzione del Corriere d’Informazione, mi trovai nella necessità di nominare il capo della redazione romana. Ero indeciso, a Milano, tra i due giornalisti più attenti alle cronache politiche, tutti e due impegnati a seguire il terrorismo: il giovane e mio coetaneo Guido Vigna (Mantova, 1942), un personaggio atipico, con alcune divertenti stravaganze (finora ha collezionato oltre 100.000 necrologi, dopo averne selezionato 2 milioni e mezzo). Alla fine scelsi Vigna. Tobagi proseguì il suo lavoro, continuano a occuparsi delle Brigate rosse. Dopo il mio addio al Corinf, fu assunto dal Corriere della Sera: qualche anno dopo fu trucidato dai terroristi. Ho sempre pensato che il suo destino probabilmente sarebbe stato diverso, se avessi inviato lui a Roma, anziché Vigna. Una spina nel cuore.
GLI AMBIZIOSI
Giovanni Valentini (Bari, 6 febbraio 1948). Ha diretto bene L’Espresso e ha sognato – ambizione legittima e ragionevole – di poter dirigere La Repubblica. Gli è stato preferito Ezio Mauro e alla fine, dopo frizioni e conflitti, se n’è andato, sbattendo la porta. Per anni sulla Repubblica, ha inchiodato Berlusconi, con una rubrica settimanale, per le invadenze (non solo) televisive. Oggi è un piacere parlare con lui: fa nomi e cognomi, ci mette la faccia, non lesina graffi e staffilate a destra e manca. Mi piacciono (non solo) i giornalisti animati dal fuoco, sacro, della competizione e della vendetta. Fustigatore.
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Roberto Napoletano (La Spezia, 22 maggio 1961). Ambiva alla direzione del Corriere della Sera. Attentissimo ai rapporti, con un’alta stima di sé. Educato, rispettoso, anche affettuoso. Ma fece saltare una mia collaborazione al Messaggero, a cui tenevo moltissimo, quando ne divenne direttore. E a volte si fanno i conti senza l’oste. Ora, alla direzione del Sole 24 Ore, rischia di essere coinvolto e di pagare per misfatti non suoi. Spero di no. (Mal)accorto.
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Alessandro Sallusti (Corno, 2 febbraio 1957). Da sei anni dirige II Giornale, con rigorosa linea berlusconiana. Raramente, dicono tutti, risponde al telefono 0 agli sms. Difficile impostare un dialogo con lui, almeno per me, nonostante la sua formale, consueta gentilezza. Da vicedirettore di Vittorio Feltri, era un ottimo confezionatore e l’uomo d’ordine in redazione. Giunto alla direzione, dedica attenzione soprattutto ai suoi editoriali. Ambizioso, ma anche lucido e riflessivo: ha rifiutato la candidatura a sindaco di Milano, prevedendo la sconfitta della destra. Una trombatura lo avrebbe demolito. Avveduto.
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05.01.2017