“Il giornalista è colui che distingue il vero dal falso… e pubblica il falso”. (Mark Twain)
ATTUALIZZANDO… QUESTA E’ LA STAMPA, BELLEZZA
Ieri a “Otto e mezzo” Lilli Gruber ha avuto come ospiti due superstar del giornalismo: Eugenio Scalfari e Paolo Mieli. L’argomento del dibattito: il cambio di direzione a “La Repubblica”, i problemi che ne conseguono nel passaggio di consegne da Ezio Mauro a Mario Calabresi, la crisi generale del giornalismo, gli eventuali cambiamenti della linea politica del quotidiano romano rispetto al premier Renzi.
LILLI GRUBER
La Gruber è una gran signora della televisione, conduce sobriamente senza nascondere le sue idee, sa incalzare gli intervistati con domande dirette e scomode: oserei affermare che il suo programma è perfetto, tagliato a sua misura, di durata quanto è giusta; la sua presenza a “La7”, alza di molte spanne il livello cocciutamente tenuto basso e chiassoso da Myrta Merlino e Tiziana Panella (ma anche sul versante maschile, Mentana a parte – una volta Mitraglietta, ora Pausetta – quanto a chiasso non si scherza). Lilli, incalzandolo, ha posto a Scalfari le due domande che gli dovevano essere poste: vero che il Fondatore si è molto arrabbiato, per non essere stato interpellato al momento di scegliere Calabresi?; cambierà la linea politica del giornale, diventerà più renziana?
EUGENIO SCALFARI / 1.
Scalfari ha minuziosamente risposto alla prima domanda, svelandoci (l’attenzione è limitata, ma non è poco, al mondo giornalistico) alcuni particolari intriganti. E’ vero, ha ammesso, si è arrabbiato molto e aveva minacciato di non scrivere più. Carlo De Benedetti è andato a casa sua, a scusarsi, e lo ha convinto a continuare a scrivere, Eugenio ha detto però che non si sentiva di confermare il suo articolone domenicale. Successivamente, ha aggiunto che Calabresi lo ha convinto a restare al suo posto e quindi – salvo sorprese – niente cambierà. Che dire? Da quarant’anni Scalfari è il nume del giornale che ha fondato, per vent’anni come direttore e per i successivi venti come indiscusso riferimento, nobilmente rispettato da tutti, in primis da Ezio Mauro. Carlo De Benedetti, a mio parere, non lo ha consultato per un mix di questi tre stati d’animo: la rudezza, spesso insidiosa, insita nella personalità di qualsiasi “padrone”; il timore che Scalfari potesse o volesse insistere per una “sua” scelta; comunque un’educata prudenza, per evitare di innescare un possibile disagio tra editore e fondatore. Comunque sia, Scalfari nel seguito del programma ha benevolmente ammesso che probabilmente la sua scelta sarebbe stata la stessa, via libera a Calabresi.
PAOLO MIELI / 1.
Paolo Mieli non ha nulla da invidiare, professionalmente, a Scalfarone. Ha diretto “La Stampa” e poi, per due volte – il primo a riuscirvi, successivamente Ferruccio de Bortoli ha ripetuto l’exploit – ha guidato “Il Corriere della Sera”. Come storico ha una credibilità e un carisma certo non inferiori a quelli di cui gode Scalfari come economista (quanto alla politica, ci sono ben altri analisti superiori al loro discusso acume…). Se fossi stato al posto di CDB, non sorridete!, avrei designato Mieli senza esitazione, come successore. Mieli o De Bortoli. La cosiddetta svolta generazionale, a mio discutibilissimo parere, non è matura. Dopo due ventenni di tal fatta, per nessuno sarebbe facile caricarsi sulle spalle l’eredità di Scalfari e Mauro. Calabresi, che ha grandi qualità, ci proverà. Ma un punto interrogativo è d’obbligo. Mieli o De Bortoli, ma anche Giulio Anselmi, avrebbero assicurato a occhi chiusi continuità, resistenza, consolidamento. Hanno i loro annetti sulle spalle, ma per tre/cinque anni (in cauta attesa della maturazione della svolta generazionale) la loro esperienza sarebbe stata preziosa: una garanzia.
PAOLO MIELI / 2.
Quanto alla crisi dei giornali, mi ha molto colpito una frase pronunciata sommessamente da Paolo: “E’ anche colpa nostra”. Come ha magistralmente analizzato Marco Benedetto in “Blitz”, oggi i giornali vendono un terzo delle copie, rispetto a pochi anni fa. Pagliaro, che a “Otto e mezzo” ogni sera regala un intelligente contributo, lo ha citato e ha fornito dati allarmanti sulla crisi. L’autocritica di Mieli, rarissima nel nostro mondo di vanitosi, presuntuosi ed egocentrici (nel muro mi ci metto anch’io, of course), mi è apparsa come un lampo di folgorante verità. Mi piacerebbe approfondire questo tema nelle prossime puntate del mio diario. Per ora mi limito a una riflessione centrale e cruciale. I giornali di carta stampata sono fatti senza alcun rispetto dei lettori. Cominciamo da una apparente banalità: i caratteri utilizzati sono di corpo minuscolo, per leggere non bastano le lenti! E il pubblico a cui si rivolgono è anziano, scarseggia direi la vista aquilina.
Provate a leggere le recensioni nella pagina dei cinema, senza lente di ingrandimento, su “La Repubblica”! O, su “Il Corriere dello sport”, le cifre e le quote del Corriere (agli amici del mio amato giornale sportivo, il de cuius De Paola e Stefano Barigelli l’avrò detto mille volte). Sembra un dispetto, certo psicologicamente inconscio, verso i lettori. Poi: la lunghezza degli articoli.
Molte volte ho indicato Ernesto Galli della Loggia come il meno sopportabile pisciatore della comunità di opinionista. Ma chi diavolo ha il tempo di arrivare alla fine di quei pezzacci. La rabbia è che il prof sarebbe un cult, se avesse capacità di sintesi. E poi perché infliggere ai lettori il fastidio di dover sfogliare il giornale, ammesso che ne abbiano voglia, di cercare il seguito delle articolesse in prima pagina. Penultima chiosa critica: dimezzando il numero delle pagine si risparmierebbero molti quattrini, la metà delle pagine è inutile, basta pensare alle cronache sul terrorismo, in questi giorni (pari e patta con le chiacchiere esasperanti nei talk televisivi). Ultimo, per oggi, appunto sulla crisi: la cronaca, la cronaca vera di una volta, non esiste più. Fate un sondaggio, leggendo dieci giornali: di sette, e forse più, resoconti non si capisce un piffero. Dove, come, quando, chi, perché: le cinque regole fondamentali del giornalismo di una volta sono totalmente ignorate. Ad esempio, per un delitto: prima di capire chi sia l’assassino, la vittima, il luogo, le circostanze, lo stato dell’inchiesta, quasi sempre devi arrivare all’ultima riga; e non sempre hai voglia di arrivarci.
EUGENIO SCALFARI / 2.
Alla fine il Fondatore non ha risposto con chiarezza alla domanda della Gruber: “La Repubblica” si avvicinerà a Renzi? Scalfari ha preferito parlare di sé e del suo cambiamento di umore, oggi più mite, verso il premier. Mieli ha tenuto a farci sapere che la svolta generazionale non poteva non premiare Calabresi: ci sono pochi quarantenni come lui, il giornale non diventerà governativo così come non lo era “La Stampa”, Mario è afflitto da critiche soprattutto da coloro che non lo conoscono. (Anche Molinari è stato ”benedetto” da Paolo, per la direzione del quotidiano torinese). A voler essere pignoli, nel dibattito non è stata sfiorata la critica più diffusa: si dice che Calabresi fosse poco presente, nella redazione torinese e oggi prende il posto di Mauro, che è stato temutissimo, apprezzatissimo anche come un impareggiabile culo di pietra.
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03.12.2015