“Questo libro è un guazzabuglio. Tratta di Niccolò Machiavelli. Di grandi questioni, e storie piccole, a cominciare da un avverbio di due sillabe che introduce allo stupro frustrato del principe sulla Fortuna. Di Tupac Shakur che andò in carcere e si rinominò Makeveli, in tempo per essere ammazzato. Di Machiavelli che si metteva nei panni di tutti, del papa, dell’imperatore, del Valentino, del capopopolo dei Ciompi e del giovane amante di successo – perfino nei propri. Tratta anche della politica nel mondo di oggi, di uomini e di donne, del ritorno alle origini, alla leggenda di San Francesco e a quella della Costituzione. Della successione, di un papa che succede ad un altro abolendo la morte di papa, di un presidente della Repubblica che succede a se stesso, di rivoluzionari, agenti segreti e avventurieri che diventano monarchi ereditari senza dichiararlo, e di capi di stato democratici che fondano dinastie. Delle madri costituenti. Di padri ricchi che diseredano i figli e di figli ricchi che rinunciano all’eredità dei padri. Dell’idea di rifare tutto di nuovo, principe nuovo, nuovi sudditi, ripartendo dal marmo grezzo, dalla carta bianca, dai montanari svizzeri, col rischio di finire alla Cambogia di Pol Pot. […] Di come si vive il resto della vita dopo che si è perduto tutto”. (da “Machiavelli, Tupac e la Principessa” Adriano Sofri, Sellerio)
ATTUALIZZANDO.. IL PRINCIPE, 500 ANNI DOPO
Consiglio il libro di Sofri, non solo per la stima che ho verso chi lo ha scritto (stima, soprattutto, per la qualità intellettuale e per i lampi di fantasia nella cultura), ma perché un lettore può appassionarsi sia ai remoti episodi evocati da Sofri, sia per i riferimenti all’attualità della politica e, in genere, della vita di oggi. Tutto, sul filo dell’analisi dei convincimenti di Niccolò Machiavelli, ovvero, a sommesso e mellifluo parer mio, padre senza complessi di ogni peggior cinismo italiano, e insuperabile analista di ogni realtà di potere, quasi sempre uguale e ripetitiva nei secoli. Tra ciò che mi ha più divertito è la citazione del testamento di Machiavelli. Traduzione dal latino: “Poiché nulla è più certo della morte, e però nulla è più incerto dell’ora della morte.. Sofri ricorda che si trattava di una formula d’uso corrente all’epoca (ricordati che devi morire, e non sai quando), che si addiceva al pensiero di Niccolò. Gli uomini muoiono e spesso muoiono quando meno se lo aspettano. E la Fortuna ha anch’essa quel limite ultimo e invalicabile.. La Fortuna è una bella donna, ma alle sue spalle si affaccia la comare con la falce. Il candidato deve essere giovane per conquistare la prima, e per tenere più a distanza la seconda.” Non vi ricorda qualcosa, 500 anni dopo “Il Principe”? La rottamazione? Niente è più nuovo di ciò che è vecchio?
DALLA PARTE DEI FORCONI. ECCO PERCHE’
Senza esitazioni, mi schiero dalla parte dei manifestanti in piazza, indicati come quelli dei forconi. Trattandosi di un argomento incandescente e in sviluppo, provo a spiegare perché, al di là dell’impulso umano e di solidarietà. Mi colpisce che, almeno fino ad oggi, nelle manifestazioni di protesta, ormai quotidiane e diffuse in tutt’Italia, non ci siano stati significativi episodi di violenza. Né mi frena, nella mia adesione, il riferimento a infiltrazioni di ribelli, balordi, teppisti, eccetera. E la risposta ufficiale di Alfano e del governo mi sembra tanto ferma e drastica quanto, come succede in questi casi, di frequente, ottusa. E’ evidente che questo tipo di ribellione, spiegata benissimo e col cuore in mano in televisione da anonimi portavoce o protagonisti, nasce dalla sofferenza sempre più insostenibile di un popolo, ahìme, il nostro popolo italiano vessato da tasse giugulatorie e privo di lavoro, di fiducia, di speranza per i propri figli. E’ un movimento di protesta trasversale, spontaneo, per ora spoliticizzato: nasce, quindi, come ho detto, dalle sofferenze quotidiane ed è legato a valori di indiscutibile importanza etica (la giustizia deve essere uguale per tutti, lo Stato non deve essere un nemico ma un tutore della società, le ruberie e gli sprechi hanno passato ogni limite, il lavoro è un’esigenza imprescindibile, anche per la propria dignità..). Se si condivide e si ha chiara questa valutazione, non si può sottovalutare la rivolta dei forconi, e non si può non condividerla moralmente. Quanto all’evocazione – pelosa – dei rivoltosi e guastatori infiltrati, non sono turbato più di tanto per alcuni buoni motivi. Primo, come detto, la ribellione e la protesta, a livello capillare in Italia, nascono con spontaneità, senza grida rivoluzionarie e sanguinarie, senza simboli di partito. E storicamente sappiamo (ricordiamo ad esempio anche i movimenti risorgimentali, garibaldini..) che le infiltrazioni comunque ci sono, inevitabili. Importante, fondamentale, è il connotato etico, e di principio, che anima la protesta. Credo che non si possa mai sottovalutare la spontaneità, senza organizzazioni oscure, delle manifestazioni di piazza. E vi propongo popolari esempi. Le manifestazioni di giubilo per la vittoria della Nazionale di calcio o per l’amata squadra del cuore, sono diventate ormai una moda ricorrente e fastidiosa. Ma nel lontano 1970 esplose per la prima volta, per un successo della nostra Nazionale in Messico, spontaneamente in varie città italiane: non c’era nessuna organizzazione dietro quelle sfilate gioiose per le strade; c’era un sentimento, che si accese con una scintilla imprevedibile. Forse l’esultanza dopo una serie di infelici disavventure calcistiche, forse un impulso nazionalistico ancor più che patriottico: nessun sociologo riuscì a spiegarlo con chiarezza. Di contro, più volte è stato detto, e concordo, che il terrorismo in Italia della Brigate Rosse non riuscì a coinvolgere il consenso nazionalpopolare perché era una manifestazione “chiusa”, ristretta ed elitaria, su sentimenti e ideali forse anche in parte di qualche validità sociale, ma non condivisi, anzi rifiutati in tutte le sedi istituzionali. Non è così, oggi, per i forconi: il fatto che alcuni tra i poliziotti, comincino a togliersi il casco, e che varie rappresentanze sindacali delle forze dell’ordine diano segni di solidarietà, ha un peso significativo. La distanza tra i nostri politici – burletta, tra l’avida Casta e gli italiani che non riescono più ad arrivare alla fine del mese dopo aver raschiato il fondo dei loro piccoli risparmi, questa distanza rischia di diventare incolmabile. Ha sbagliato il ministro dell’interno a non convocare immediatamente i rappresentanti delle manifestazioni e a sentire le loro ragioni. E del resto come dar torto ai “forconi”, quando dichiarano di non aver alcuna fiducia nella classe politica al governo, e perfino in quella all’opposizione, perché tutte e due sono responsabili del disastro italiano a cui siamo arrivati. C’è chi non riesce ad aprire il proprio negozio e protesta contro la protesta dei forconi, c’è chi non riesce ad andare a prendere il bimbo all’asilo e, ragionevolmente, si lamenta. Ma il problema sociale è proprio qui. L’Italia è divisa, grossomodo in tre fasce. La prima e abbietta è la Casta. La seconda è una fascia piccolo o medio borghese, che con scontentezza riesce a tirare avanti. La terza, se vogliamo aprire gli occhi, e l’invito è rivolto a chi ci governa, è una stragrande maggioranza: divisa, rissosa, vendicativa, piena di difetti e di problemi, senza guida, ma accomunata dai torti subiti ogni giorno. Merito della protesta dei forconi è, a mio parere, esprimere rabbia, indignazione e desiderio di un’altra società in maniera sostanzialmente pacifica, senza violenza. E dunque, la prendiamo in considerazione o no? Siamo in una fase pre-rivoluzionaria o la Casta, che non taglia mai i suoi sprechi riuscirà a domare anche questa ribellione, in attesa della successiva e via via così? Con tutto il rispetto per i commercianti che non alzano una saracinesca e le mamme in difficoltà con i loro bambini all’asilo, penso che sia un gravissimo errore – rimediabile – sottovalutare questa piazza animosa, orgogliosa, spinta da giuste motivazioni e rifiutarsi di venire incontro alla protesta, in modi concreti e persuasivi. Se pensiamo che sia importante evitare il caos totale, e io lo penso, e già non stiamo parlando di un caos calmo, bisogna riflettere perbene anche sulla protesta degli studenti de La Sapienza, stamattina a Roma, quando esortano i poliziotti a togliersi il casco e non di fronte “ai fascisti”. E, sempre oggi (dopo 44 anni!) ma a Milano, la ricorrente manifestazione per la strage della Banca dell’agricoltura. Con rinnovate motivazioni politiche. Tutti contro tutti? Tutto e il contrario di tutto? Per quanto mi riguarda, spero di no. Spero che la classe politica, vergognosa fino ad oggi, di fronte a prospettive drammatiche riesca a trovare momenti di indispensabile onestà, di buon senso al minimo.
IN MORTE DI ANGELO RIZZOLI
Se ne è andato Angelo Rizzoli, mio editore negli ani ’70 insieme con il papà Andrea e con il fratello Alberto. Un paio di anni prima Piero Ottone, direttore del Secolo XIX (dove mi aveva assunto nominandomi presto suo vice), era stato chiamato a dirigere Il Corriere della Sera. Poi i Rizzoli chiamarono me per affidarmi il Corriere di Informazione, edizione
del pomeriggio del Corrierone. Preferisco ricordare Angelo e la sua famiglia, oggi, come mi apparvero in quegli anni. Mi fecero la loro offerta, lusingandomi anche sul piano economico, due volte. La prima volta rifiutai perché il bel giornale di Genova era accogliente e privo di problemi. La seconda volta, dopo poche settimane, accettai e tutt’ora mi chiedo se fu saggia, o no, la mia decisione. Saggia o no che fosse la decisione, gli anni trascorsi al CorInf sono stati tra i più belli della mia carriera sia della mia vita. Coeditori con i Rizzoli erano i Carraro, risale a quegli anni la mia amicizia con Nicola, che in seguito si dedicò soprattutto al cinema. Angelo Rizzoli, infermo fin da allora, era il più colto ed estroverso della famiglia. Ma era troppo giovane per primeggiare nel ruolo dell’editore più importante d’Europa, all’epoca, e inesperto per poter guardarsi da insidie politiche e finanziarie, all’interno e all’esterno della casa editrice. Era giovanissimo e fraternizzammo all’istante: ricordo ancora quando mi presentò Silvio Berlusconi, alle prime armi, che era venuto in via Solferino, esitante e addolorato per alcuni articoli di un’inchiesta a lui non favorevole pubblicati dal mio CorInf. Ricordo questo per dire quanta acqua è passata sotto i ponti: ad esempio, l’epopea di Berlusconi, all’epoca solo un ambizioso palazzinaro, e poi l’uomo più potente nei successivi quarant’anni, fino alla decadenza dal Senato e alle condanne di oggi. Vissi un periodo di assoluta indipendenza, i Rizzoli non mi censurarono mai nulla e non mi chiesero nulla. Quando, dopo un successo della Democrazia Cristiana, capii che i contenuti del giornale non erano tanti graditi, me ne andai senza essere cacciato. Angelo era un uomo cinico indubbiamente, ma desideroso di affetto, forse anaffettivo al punto che i suoi sentimenti più teneri erano per il meraviglioso pappagallo che teneva orgogliosamente in salotto, nella sua casa nel cuore di Milano. E fu sempre incerto di fronte alle tragedie che si svilupparono nella sua famiglia e nella sua casa editrice: la sua vita dovrebbe essere raccontata da un Thomas Mann, inserita nella dinastia che cominciò con il nonno, ex martinitt, e finì in rovina per le vicende legate al Banco Ambrosiano, alla P2 e alla ferocia dell’alta finanza e della politica dominante. Era un uomo ricco di simpatia e di umanità, Angelone – come lo chiamava chi gli voleva bene. Fu raggirato, finì in prigione per provvedimenti di giustizia molto discussi, rovinato e scippato dei suoi possedimenti editoriali ed anche del suo patrimonio personale. Lo incrociai molti anni dopo: era stanco, invecchiato, ma le esperienze di vita lo avevano reso ancora più intelligente e filosofo. Era certamente infelice, non riusciva ad arrendersi alla crudele sconfitta che, certo non senza sue responsabilità, il destino gli aveva disegnato con eventi anche romanzeschi. Perciò preferisco tornare con la memoria agli anni ’70, quando tutto pareva attraente e possibile. Amava scherzare come sempre, ricordo la sua battuta quando i carabinieri andarono ad arrestarlo: “Vado a vivere da solo”, ovvero il titolo di un filmetto con Renato Pozzetto, che proiettavano in quei giorni di fronte a casa sua. Ma era indurito, non più accattivante e rispettoso verso gli altri e verso il mondo, com’era stato, con eleganza, da giovane. Ora, giustamente, era rancoroso e amareggiato per i torti che aveva subito.
12-12-2013
Se volete, scrivetemi a cesare@lamescolanza.com