Credo davvero che di tutto ci sia bisogno – in questa Italia impoverita e impaurita – che un nuovo scontro sul famoso articolo 18, buy cialis quello che tutela circa otto milioni di lavoratori italiani: a meno che non si intenda vederli scendere in piazza furiosi anche loro, insieme ai forconi e ai precari, così abbiamo chiuso il cerchio e ciao.
Per fortuna pare che la polemica sia stata stroncata sul nascere dalle parole dei vari consiglieri renziani – Gutgeld, Taddei, Madia – i quali assicurano che si sta pensando ad altro, non a infierire sulla piaga ancora sanguinante per le coltellate della furbissima Fornero.
È quindi su questo altro che sarebbe opportuno discutere, cioè sui milioni di italiani che già nei nomi a loro affibbiati evidenziano la propria disomogeneità: precari, flessibili, somministrati, interinali, parasubordinati, stagisti, ditte individuali, consulenti, partite Ive, etc etc, fino ai semplici disoccupati e agli ormai famosi ‘neet’.
Nell’attesa del ‘job act’ annunciato da Taddei & company, conviene quindi che siano ricordati e ben sottolineati alcuni fari a cui questo si dovrebbe opportunamente ispirare:
Primo, l’incertezza sul futuro è inversamente proporzionalmente ai consumi, ormai lo sanno anche i bambini. Quindi non solo è indispensabile non diffondere nuovi timori sul futuro salario di chi al momento ha la fortuna di averlo, ma è indispensabile partire dal principio della continuità di reddito per tutti. Se volete chiamarla ‘flexsecurity’, la parola che piaceva tanto a Ichino, fate pure; se preferite definirlo ‘reddito minimo garantito’ come invece fanno Landini e Grillo, è okay lo stesso: quello che conta è stabilire un patto con il lavoratore in base al quale lui offre disponibilità al lavoro e all’aggiornamento dei suoi know-how, mentre la società gli offre garanzie reali di continuità del reddito. Queste garanzie hanno un costo, di cui devono e possono farsi carico solo le fasce sociali più ricche. Detta più con l’accetta, la flexsecurity per partire rischia di avere bisogno di tasse più alte per i più benestanti – Imu compresa, finanza compresa – e probabilmente di una patrimoniale.
Secondo, come ricorda spesso Domenico De Masi «oggi in Italia ci sono dieci famiglie super ricche che hanno un reddito pari a tre milioni di famiglie povere». Uno scandalo morale? No, soprattutto un problema pratico per tutti, perché quelle dieci famiglie non compreranno mai tre milioni di paia di scarpe, quindi non aiutano a far ripartire i consumi e l’economia. Piazzano i loro soldi nella finanza e buonanotte. Detta meno con l’accetta: insegnano Malthus, Keynes e Stiglitz che quando la ricchezza si concentra in poche mani, il denaro si allontana dai consumi produttivi; e che la disuguaglianza nella ripartizione delle risorse non è soltanto una conseguenza della crisi ma ne è anche una causa di aggravamento. Quindi la precondizione per creare posti di lavoro – ciò che dovrebbe essere lo scopo del job act – è la riduzione delle disuguaglianze sociali. Entrare nella carne della legislazione sul lavoro senza mettere contestualmente le mani su questa precondizione porterebbe agli stessi straordinari risultati a cui hanno portato le riforme ‘liberalizzatrici’ di Treu e Fornero: minus quam merda.
Terzo, i know-how, a cui si è già accennato. La parolina inglese dà fastidio e suona un po’ anni ‘80: lo so e me ne scuso. Ma è quella che ormai viene comunemente adoperata per definire un pianeta in cui i cambiamenti strutturali della produzione cambiano così in fretta che quello che sappiamo fare oggi non servirà più a niente tra quattro o cinque anni. Quindi la questione dell’aggiornamento delle capacità non è un lusso o una stravaganza, ma sta diventando un impellente bisogno sociale e uno di quei servizi pubblici di base che lo Stato deve fornire ai suoi cittadini: non necessariamente in prima persona, magari in accordo con i privati, insomma laicamente e come vi pare, ma deve occuparsene. Ne va del nostro futuro, come collettività: non solo come singoli. E vale sia per quelli che sono tuttora ‘garantiti’ (ma per quanto, se poi la loro azienda chiude?) sia per tutti gli altri, per il variegato esercito dei ’senza tredicesima’. Anche questo ha probabilmente un costo, e qualcuno lo chiamerà sprezzantemente ’spesa pubblica’. Ma è soprattutto un investimento – e pure molto fruttifero. Forse più dei miliardi spesi per fare guerre in giro per il mondo.
Quarto, nel mettere mano alla legislazione sul lavoro è bene ricordarsi sempre che l’erba cattiva scaccia quella buona. Vale a dire che se si prevedono forme contrattuali pessime per i lavoratori, queste prevarranno sempre di più sulle altre nell’offerta, diffondendo quindi a macchia d’olio “jobs” e “minijobs” talmente incerti da non produrre alcun miglioramento in termini di speranza nel futuro, quindi di consumi, quindi di ripresa. Il fallimento epocale della legge Treu è lì, ogni giorno, a ricordarcelo.
Quinto, vorrei sommessamente ricordare che tra le poche cose buone che il dibattito pubblico sulla riforma Fornero ha messo in luce è che se i famosi investitori stranieri non vengono in Italia i motivi prevalenti sono tre e non hanno nulla a che vedere con la legislazione sul lavoro: sono la corruzione/malavita organizzata, il pessimo funzionamento della giustizia civile e la burocrazia sadica e confusa. Visto che Renzi e i suoi dicono giustamente che la questione lavoro va affrontata nella sua globalità e non come se il lavoro fosse una monade isolata dal resto, affrontare di petto queste tre questioni (specie la prima) mi sembra la priorità indispensabile per occuparsi del resto.
Alessandro Gilioli – L’Espresso 19- 12 – 2013